Il tempo felice e prospero dei mercanti pisani e dei trattati con Tunisi

Tunisi ebbe origine forse al più tardi a partire dal VI secolo a.C., fu occupata dai romani definitivamente nel 146 a. C. e abitata dai Vandali nel V secolo. Caduta sotto il dominio degli arabi nel 692, con gli Omayyadi si ingrandì e venne munita di un arsenale e di un canale che la collegava al Mediterraneo. Nel 732-734 ebbe anche una moschea costruita, secondo la tradizione, sull’oratorio cristiano di Santa Oliva da Palermo (martire, † 463).
Dall’893 al 903, regnanti gli Aglabidi, si dotò di nuovi edifici urbani. Nell’XI-XX secolo subì rivolte e controversie esacerbate dall’invasione dei Banu Hilal e di altre tribù beduine. Sfuggì alla pretesa di potere dei berberi Ziridi, sotto il dominio di altre dinastie nomadi arabo-berbere.
Dal 1203 fu regno dei Banu Ganiya e degli Almoravidi, quindi degli Almohadi, sotto i quali divenne di fatto la capitale dell’Ifriqiya, l’Africa del nord.
La pressione espansiva dei re di Sicilia (da Ruggero II, 1150, fino al tempo di Pietro III d’Aragona, † 1285), nonostante le crisi politiche e militari, provocò lo sviluppo di un intenso commercio mediterraneo e a Tunisi la presenza di fondachi di nazioni e mercanti stranieri. Con la dinastia degli Hafsidi (1229-1574) la città diventò una capitale economica e metropoli del Mediterraneo caratterizzata da una sua ricca produzione artigianale (ramai, ceramiche ...) e da numerose filiali. Rimase tale anche al tempo dei conflitti per il trono sorti dopo la morte di Abu Abdallah al Mustansir (1249-1277).

Nel fiorente sviluppo della Tunisi medievale ebbero una loro parte i pisani che qui commerciarono e sottoscrissero vantaggiosi trattati, ricevendo privilegi e attestati, anche se non mancarono (altrettanto utili) conflitti. Nel 1157 in una lettera di risposta diretta all’arcivescovo di Pisa e ai pisani maggiori e minori, il re di Tunisi si condoleva dei danni cagionati ai loro concittadini e assicurava il risarcimento, la liberazione e il ritorno in patria degli schiavi catturati.
Nel 1200 il principe almohade Abu-Zeid-Abd-er-Rahman si lamentava del fatto che, contro i patti, due galere da guerra pisane avessero predato nel porto di Tunisi tre navi saracene con uomini e merci. Per rappresaglia e risarcimento ordinava che fosse venduto tutto il grano dei pisani e dei lucchesi conservato nei magazzini della città.
Le reciproche relazioni comunque rimasero buone nel complesso il dugento fu un periodo felice per i pisani che commerciarono con tranquillità e unirono spesso e volentieri le rotte da e per Tunisi a quelle da e per Castel di Castro di Cagliari (1228). Ebbero un fondaco proprio, retto da un prete nel 1240, e trasportarono tra le tante mercanzie il cuoio (1210), la lana (1314), il grano di Sicilia (1200, 1320, 1321), il vino (1370), l’allume, a leggere solo qualche carta d’archivio.

Anche i trattati e le paci sono ricordati in molti documenti e trascritti nel bel libro di Michele Amari I Diplomi arabi..., 1863. Furono rinnovati ad esempio nel 1264, nel 1313, nel 1320, nel 1353, nel 1378 e nel 1414.
Nella carta del 1353 si legge come “pelegrinus Abumamet Abdala Bentefraghin” visir dell’emiro Elmumin Ybrisac Abram Ebne re di Tunisi figlio del nobilissimo e potentissimo Mibuchier, da una parte, e ser Ranieri Porcellino mercante figlio di ser Francesco Porcellini ambasciatore e procuratore (il quale parlava l’arabo) del comune di Pisa, dall’altra, stipulassero vera pace e concordia e remissione di ingiurie, offese e ruberie reciproche.
I pisani erano quindi autorizzati a stare a Tunisi, a commerciare, ad attraccare nel porto o in altri del dominio senza essere molestati, ed erano tenuti al pagamento o meno di certi diritti sulle merci e sull’oro e l’argento “cugnato” (coniato) o fabbricato. E come al solito, il trattato prevedeva la liberazione degli schiavi pisani senza spesa da parte dei saraceni.
Il trattato fu scritto a nella “cuba” (cupola, o palazzina) nel mezzo del giardino “Restabbi” posto presso Tunisi, presente Ferrando Peres cristiano stipendiario (mercenario) del re e interprete (turcimanno), l’arcaido (kaid = capitano) Lodovico Alvares, l’arcaido Andreuccio Cibo connestabili degli stipendiari cristiani del re, oltre a Simone di Orlando, Andrea di ser Piero Salmuli e altri cristiani e saraceni. Rogò il tutto Benincasa di Meo di Casone da Montemagno.

Nel 1378 si legge invece di un trattato prossimo alla stipula. Quest’anno gli anziani del comune di Pisa – cioè Gerardo astario priore, Guelfo di ser Matteo bilanciario, Piero di Fazio notaio, Gerardo di ser Piero da Lavaiano, Andrea di Piero, Neri Malpelo, Tommaso di Ianni, Iacobo di Botte da Montecalvoli, Piero del Grillo, Gerardo di Dino Ducci e Nuccio di Iacopo del Baglione – e il cavaliere Piero Gambacorti capitano e custode di Pisa, signore delle masnade e difensore del popolo, costituirono procuratore il cavalier Ranieri del fu Pero Bullie dei Gualandi per andare a Tunisi e giurare presso il re (non nominato) un’altra “veram, puram, bonam et perpetuam pacem et concordiam ...”.
La carta fu scritta dal notaio Iacobo di Nocco da Cascina nel palazzo degli anziani in un ambiente ‘misterioso’, cioè “ad palmentum” (nella strettoia? o nel palmeto? nel suolo o pavimento?) dove gli anziani tenevano udienza.
Furono presenti Iacobo del fu ser Vanni di Appiano cancelliere degli anziani – che nel 1392, alleato con i Visconti, avrebbe fatto uccidere Piero Gambacorti (così andava la storia allora!) – e ser Francesco del fu Puccio Omodei cancelliere del comune.

Paola Ircani Menichini, 25 maggio 2023.
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